lunedì 21 ottobre 2013

Le ninna nanne

Avevo gli anni che si contavano sulle dita di una mano. 
La scuola che frequentavo era accanto a casa mia, bastava attraversare la strada. Di solito la mia mamma mi accompagnava e il mio papà veniva a riprendermi, a piedi ovviamente. La maggior parte degli altri bambini invece, tornava a casa con il pulmino giallo perchè le loro case erano un pò più lontane. 
Non so perchè io sognavo tanto salire sopra quel pulmino, forse perchè tutti gli altri bambini ci salivano e io no, forse perchè era giallo, forse perchè chissà cosa c'era lì dentro o forse semplicemente perchè avevo 5 anni. Fatto sta che un bel giorno il mio papà capì quanto fosse importante per per me e si decise, parlò con Giuliano, l'autista del pulmino e organizzarono un giretto turistico nel paesello tutto per me, così fù, io ci salì quella volta, quell'unica volta ed ero felice come non mai. Quel giorno lo ricordo come se fosse ieri. 
Le ninnananne invece no, non le ricordo, eppure mamma me le canticchiava, quelle tradizionali mi dice, ma io niente, non me le ricordo. Per questo ho deciso di illustrarle, per immaginare quei momenti in cui ero troppo piccola per ricordare. 
Di solito con le ninnananne mi addormentavo dice mamma, ma quando mi sono svegliata avevo già gli anni che non si contavano più sulle dita di una mano e non sono riuscita a ricordare. 
Il pulmino giallo invece è sempre lì, sempre lo stesso, che aspetta i bambini che escono da scuola.


"Addormentati, piccino mio
 Sii un ragazzo al tuo risveglio.
 Prova ad addormentarti e dormi
 finchè la chiara alba permetterà al giorno di irrompere.
 Allora dormi e ancora dormi
 fino all'alba di domani.Mi chiedo chi abbia inventato questa canzone,
 penso che la prima volta sia stata
 pronunciata dalla boccuccia di un bambino
 quando la madre lo lasciò che dormiva
 e lo ritrovò che cantava."

Ninna nanna popolare






Illustrazioni e testo: Rosaria Farina.

 

lunedì 14 ottobre 2013

io-pelle [poesia tattile]

La pelle "è un dato originario di ordine organico e nello stesso tempo di ordine immaginario, come sistema di protezione della nostra individualità e, contemporaneamente, come strumento e luogo di scambio con gli altri"
(D. Anzieu).


La gente, a mio parere, può essere conosciuta in due grandi gruppi: quelli che abbondano di abbracci. E quelli che, invece, no.
Ci sono persone che, mentre ti parlano, ti avvolgono di parole e di contatto; per sottolineare il loro connaturato calore, ti sfiorano le mani, ti afferrano il braccio appena sopra il gomito, ti tirano la manica, ti battono pacche sulle spalle, non disdegnando, sovente, buffetti sulla nuca e pizzicotti. Di solito, quando ti incontrano (e quando si congedano da te, in un unico immenso slancio tattile senza inizio né fine), queste persone ti avviluppano in un sonoro abbraccio. Sonoro, sì, perché se gli abbracci facessero rumore sarebbe tutto un crocchiare e un tintinnare.
Questi sono gli uni.

Poi ci sono gli altri.
Quelli schivi, ai quali i polpastrelli e l'intera superficie corporea pongono problemi, talvolta insormontabili. Perché nella vita di tutti i giorni, ahimè, c'è sempre qualcuno che potresti dover toccare. Eccoli lì, gli ipersensibili. Quelli che sull'autobus sono così consapevoli di star sfiorando il polso del tizio in piedi accanto a loro, da arrossire. E che, quando camminano per strada, hanno sempre bisogno di una buona distanza, un confine di silenzioso nulla tutt'intorno, ché non si sa mai, potresti incappare in una nocca, un malleolo, un ginocchio, una mandibola, essendo gli altri esseri umani così ridondanti negli spigoli.
Sono gli stessi che, quando qualcuno li abbraccia, hanno un'istintiva reazione vegetale: diventano rigidi, verdi (o bianchi, a seconda della stagione) e, potendolo fare, sprofonderebbero silenziosamente di una decina di centimetri nel terreno.

E io?
Io da piccola mi addormentavo solo sulla pancia di mia mamma, beandomi di tanta soffice abbondanza di pelle, contatto e calore. Avevo tutte le carte in regola per essere super crocchiante.
Ma la beata vita del marsupiale non è consentita a una normale quattrenne. Bisogna reinventare l'addormentamento, tenendo sotto il naso un batuffolo di cotone e succhiandomi il pollice. 
E il peggio doveva venire. La vita sociale inquadrata e fruttuosa, prima o poi ti obbliga a cedere il passo. 
Via il dito e il batuffolo, non avevo più molte difese nell'andare per il mondo, solo il mio tatto e la mia pelle, un tantino ipersensibile. A quel punto tutti mi sembravano troppo pieni di spigoli. Nata crocchiante e tintinnante, eccomi lì, trasformata in un'adolescente sedano.

C'è di buono che la vita (è sublime certezza), ti pone sempre davanti al cambiamento.
E cambiamento significa, a conti fatti, che le cose possono sempre trasformarsi. Anche l'una nell'altra.
Così una persona ridondante di abbracci può, ad un certo punto, ritirarsi silenziosa in sé stessa senza toccare nessuno, come il mare a Mont San Michel.
Allo stesso modo, una persona che cammina sempre sul marciapiede opposto all'umanità può, se è il caso, lanciarsi a ballare un čoček a piedi nudi intorno ad un falò.
Grazie a questa fortuna, i miei polpastrelli hanno imparato ad essere schivi o ridondanti, la mia pelle ad esplorare il mondo, oppure a ritirarsi a meditare nel suo guscio.
Si può sempre fare. A giorni alterni, ad esempio.
Gustare a modo proprio la magia del contatto con le cose, guardando il mondo schiudersi come un piccolo uovo di tartaruga. Con una una meraviglia priva di parole, oppure allungando una mano, a sfiorarlo.

Con queste riflessioni in punta di dita, e convinta (per tutti i motivi che ho elencato) che il toccare e il sentire a pelle siano davvero opera poetica quotidiana, mi sono messa al lavoro su questa serie di immagini. Mentre aspettavo che nascesse Olivia, la mia prima figlia, chiedendomi se lei avrebbe dormito volentieri sulla mia pancia e come sarebbe stato il nostro primo contatto nel mondo di fuori.

[Ho scritto anche tre piccoli testi poetici che accompagnano le tavole tattili, ma questi sono una mia interpretazione. Chiunque le tocchi e le guardi, sono certa, potrà trovare e seguire una sua riflessione e un suo significato. Se dovessimo finire sullo stesso autobus, magari, ci sediamo vicini a parlarne.]


I. rêverie

ti cerco

dove sei?

sei qui,

sono qui.

sono.




II. dialogo


se tu,
se io.
siamo intenzione
ritmo
battito
temperatura
[silenzio]
ascolta.
ti ascolto.




III. assenza

solo.
è freddo.
nel vuoto
germoglia
la soglia,
si apre
sul mondo.




[testi e illustrazioni di estella guerrera]

lunedì 7 ottobre 2013

Haiku


 "Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così percossa, attonita" ( puntini, puntini)

Memorizzare questo era estenuante, pomeriggi a sbattere la testa contro il libro, mentre la barbie mi chiamava pregandomi di cambiarle l' abito, e la corda dai manici rossi mi ricordava che il record stabilito il giorno prima era da migliorare, solo 100 salti consecutivi? Scarsina la bimbetta.

Ma il ricordo peggiore è:  La spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini!
Il 5 maggio di Manzoni a confronto era una passeggiata a piedi nudi nel parco.

"Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Me ne andavo al mattino a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca che andava a vapore"(puntini puntini)

Alla seconda strofa, stramazzavo e pensavo a come potevo cambiare la mia sorte, sicuramente impietosa, il giorno dopo a scuola… La mia mente inanellava una serie di scuse assurde, Carducci, mi costrinse a dire che mi era nata una sorellina, in realtà era nata mia cugina, per cui non era proprio una bugia con la B maiuscola, se poi io le volevo bene come fosse stata una sorella non mi si poteva di certo biasimare o rimproverare.
La maestra Italia, prese fra le dita i due lembi rossi bavucchiati e mentre li ricomponeva in fiocco, guardandomi negli occhi mi disse che avrebbe chiamato casa per congratularsi, anche se aveva incontrato mia mamma e non le sembrava aspettasse un bambino.
Fortunatamente un pomeriggio con Ungaretti mi ruppi un braccio, e andai a scuola con il gesso. La maestra controllò minuziosamente il mio arto, ed ero felice perché si ruppe il destro.
Era usanza all’ora della merenda donare un po' della propria, a chi si faceva male, come nel mio caso, oppure a chi era triste, di solito si era tristi quando volavano in cielo i nonni o i criceti.
Mangiavo beatamente, patatine fritte, che a casa mia erano severamente vietate, soprattutto come merenda alle 10 del mattino, e la mia sana banana o il sanissimo panino con la marmellata, venivano donati con slancio altruistico, mentre mi facevo firmare il gesso dai miei compagni di classe con aria soddisfatta di chi ha vinto.
 Il problema del braccio però è che servì , come scusa intendo,solo il giorno dopo l’incidente. (Cioè incidente stavo scappando da un ragazzino che mi tirava con la fionda ricci di castagne selvatiche, per riconquistarsi la capannina ma questa è un'altra storia)
Poi imparai a scrivere con la sinistra, arrivai alla triste conclusione che per le poesie  mi sarei dovuta rompere la testa con una grave perdita di memoria.
La spigolatrice di Sapri, ormai senza più scuse, mi costrinse a mettermi sul ballatoio delle scale con la finestra aperta ( a casa non potevo ,mia madre mi avrebbe sicuramente scoperta in compenso mi scoprì la vicina che saliva con la spesa ) a respirare a pieni polmoni aria gelida invernale, senza maglione in maniche di camicia sperando in un febbrone da cavallo per il giorno dopo, in posizione di benedizione papale e con un braccio ingessato ma non funzionò. La studiai.
La mattina dopo, cominciai a ripeterla mentre facevo colazione, mi spazzolavo i denti, mi mettevo il cappotto la sciarpa le scarpe, mentre chiudevo a chiave la porta di casa, a voce alta nello scendere i 3 piani di scale, così per rompere le balle ai vicini, lungo la strada e aspettando il suono della campanella.
La ripetei per prima, per paura di scordarmi qualche cosa con il passare del tempo, la maestra incredula avrà sicuramente pensato, quando inizia la seconda strofa mi stramazza sul pavimento, e invece no, la recitai anche con un certo pathos. 
C'era un problema secondario da non sottovalutare, queste poesie interminabili, una volta memorizzate, si dovevano ripetere ai nonni, ai parenti tutti, agli amici che venivano a cena, alla vicina di casa e non so a chi altro.
Ho scelto gli Haiku, perché sono formati da tre strofe!  Mi avrebbero reso la vita molto più semplice.

 Yosa Buson
 Cade nel buio
di un vecchio pozzo
una camelia.

                                           
                Yosa Buson               
 Sera autunnale
c'è gioia
anche nella solitudine



 
        Kobayashi Issa     
 Un filo di fumo
disegna adesso
il primo cielo dell'anno