Avevo gli anni che si contavano sulle dita di una
mano.
La scuola che frequentavo era accanto a casa mia, bastava
attraversare la strada. Di solito la mia mamma mi accompagnava e il mio
papà veniva a riprendermi, a piedi ovviamente. La maggior parte degli
altri bambini invece, tornava a casa con il pulmino giallo perchè le
loro case erano un pò più lontane.
Non so perchè io sognavo tanto salire
sopra quel pulmino, forse perchè tutti gli altri bambini ci salivano e
io no, forse perchè era giallo, forse perchè chissà cosa c'era lì dentro
o forse semplicemente perchè avevo 5 anni. Fatto sta che un bel
giorno il mio papà capì quanto fosse importante per per me e si decise,
parlò con Giuliano, l'autista del pulmino e organizzarono un giretto
turistico nel paesello tutto per me, così fù, io ci salì quella volta,
quell'unica volta ed ero felice come non mai. Quel giorno lo ricordo
come se fosse ieri.
Le ninnananne invece no, non le ricordo, eppure
mamma me le canticchiava, quelle tradizionali mi dice, ma io niente, non
me le ricordo. Per questo ho deciso di illustrarle, per immaginare
quei momenti in cui ero troppo piccola per ricordare.
Di solito con le
ninnananne mi addormentavo dice mamma, ma quando mi sono svegliata avevo
già gli anni che non si contavano più sulle dita di una mano e non sono riuscita a ricordare.
Il pulmino giallo invece è sempre lì, sempre lo
stesso, che aspetta i bambini che escono da scuola.
"Addormentati, piccino mio
Sii un ragazzo al tuo risveglio.
Prova ad addormentarti e dormi
finchè la chiara alba permetterà al giorno di irrompere.
Allora dormi e ancora dormi
fino all'alba di domani.Mi chiedo chi abbia inventato questa canzone,
penso che la prima volta sia stata
pronunciata dalla boccuccia di un bambino
quando la madre lo lasciò che dormiva
e lo ritrovò che cantava."
Ninna nanna popolare
Illustrazioni e testo: Rosaria Farina.
lunedì 21 ottobre 2013
lunedì 14 ottobre 2013
io-pelle [poesia tattile]
La
pelle "è un dato originario di ordine organico e nello stesso
tempo di ordine immaginario, come sistema di protezione della nostra
individualità e, contemporaneamente, come strumento e luogo di
scambio con gli altri"
(D. Anzieu).
(D. Anzieu).
La
gente, a mio parere, può essere conosciuta in due grandi gruppi: quelli
che abbondano di abbracci. E quelli che, invece, no.
Ci
sono persone che, mentre ti parlano, ti avvolgono di parole e di
contatto; per sottolineare il loro connaturato calore, ti sfiorano le
mani, ti afferrano il braccio appena sopra il gomito, ti tirano la
manica, ti battono pacche sulle spalle, non disdegnando, sovente,
buffetti sulla nuca e pizzicotti. Di solito, quando ti incontrano (e
quando si congedano da te, in un unico immenso slancio tattile senza
inizio né fine), queste persone ti avviluppano in un sonoro
abbraccio. Sonoro, sì, perché se gli abbracci facessero rumore
sarebbe tutto un crocchiare e un tintinnare.
Questi
sono gli uni.
Poi
ci sono gli altri.
Quelli
schivi, ai quali i polpastrelli e l'intera superficie corporea
pongono problemi, talvolta insormontabili. Perché nella vita di
tutti i giorni, ahimè, c'è sempre qualcuno che potresti dover
toccare. Eccoli lì, gli ipersensibili. Quelli che sull'autobus sono
così consapevoli di star sfiorando il polso del tizio in piedi
accanto a loro, da arrossire. E che, quando camminano per strada,
hanno sempre bisogno di una buona distanza, un confine di silenzioso
nulla tutt'intorno, ché non si sa mai, potresti incappare in una
nocca, un malleolo, un ginocchio, una mandibola, essendo gli altri
esseri umani così ridondanti negli spigoli.
Sono
gli stessi che, quando qualcuno li abbraccia, hanno un'istintiva
reazione vegetale: diventano rigidi, verdi (o bianchi, a seconda
della stagione) e, potendolo fare, sprofonderebbero silenziosamente
di una decina di centimetri nel terreno.
E
io?
Io
da piccola mi addormentavo solo sulla pancia di mia mamma, beandomi
di tanta soffice abbondanza di pelle, contatto e calore. Avevo tutte
le carte in regola per essere super crocchiante.
Ma
la beata vita del marsupiale non è consentita a una normale
quattrenne. Bisogna reinventare l'addormentamento,
tenendo sotto il naso un batuffolo di cotone e succhiandomi il
pollice.
E il peggio doveva venire. La vita sociale inquadrata e fruttuosa, prima o poi ti obbliga a cedere il passo.
Via il dito e il batuffolo, non avevo più molte difese nell'andare per il mondo, solo il mio tatto e la mia pelle, un tantino ipersensibile. A quel punto tutti mi sembravano troppo pieni di spigoli. Nata crocchiante e tintinnante, eccomi lì, trasformata in un'adolescente sedano.
E il peggio doveva venire. La vita sociale inquadrata e fruttuosa, prima o poi ti obbliga a cedere il passo.
Via il dito e il batuffolo, non avevo più molte difese nell'andare per il mondo, solo il mio tatto e la mia pelle, un tantino ipersensibile. A quel punto tutti mi sembravano troppo pieni di spigoli. Nata crocchiante e tintinnante, eccomi lì, trasformata in un'adolescente sedano.
C'è
di buono che la vita (è sublime certezza), ti pone sempre davanti al
cambiamento.
E
cambiamento significa, a conti fatti, che le cose possono sempre
trasformarsi. Anche l'una nell'altra.
Così
una persona ridondante di abbracci può, ad un certo punto, ritirarsi
silenziosa in sé stessa senza toccare nessuno, come il mare a Mont
San Michel.
Allo
stesso modo, una persona che cammina sempre sul marciapiede opposto
all'umanità può, se è il caso, lanciarsi a ballare un čoček a
piedi nudi intorno ad un falò.
Grazie
a questa fortuna, i miei polpastrelli hanno imparato ad essere schivi o
ridondanti, la mia pelle ad esplorare il mondo, oppure a ritirarsi a
meditare nel suo guscio.
Si
può sempre fare. A giorni alterni, ad esempio.
Gustare
a modo proprio la magia del contatto con le cose, guardando il mondo
schiudersi come un piccolo uovo di tartaruga. Con una una meraviglia
priva di parole, oppure allungando una mano, a sfiorarlo.
Con
queste riflessioni in punta di dita, e convinta (per tutti i motivi
che ho elencato) che il toccare e il sentire a pelle siano davvero
opera poetica quotidiana, mi sono messa al lavoro su questa serie di
immagini. Mentre aspettavo che nascesse Olivia, la mia prima figlia, chiedendomi se lei avrebbe dormito volentieri sulla mia pancia e come
sarebbe stato il nostro primo contatto nel mondo di fuori.
[Ho
scritto anche tre piccoli testi poetici che accompagnano le tavole tattili,
ma questi sono una mia interpretazione. Chiunque le tocchi e le guardi, sono certa, potrà trovare e seguire una sua
riflessione e un suo significato. Se
dovessimo finire sullo stesso autobus, magari, ci sediamo vicini a
parlarne.]
I. rêverie
ti cerco
dove sei?
sei qui,
sono qui.
sono.
II. dialogo
se tu,
se io.
siamo intenzione
ritmo
battito
temperatura
[silenzio]
ascolta.
ti ascolto.
III. assenza
solo.
è freddo.
nel vuoto
germoglia
la soglia,
si apre
sul mondo.
[testi e illustrazioni di estella guerrera]
lunedì 7 ottobre 2013
Haiku
"Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro, così
percossa, attonita" ( puntini, puntini)
Memorizzare questo era estenuante, pomeriggi a sbattere la testa contro
il libro, mentre la barbie mi chiamava pregandomi di cambiarle l' abito, e la
corda dai manici rossi mi ricordava che il record stabilito il giorno prima era
da migliorare, solo 100 salti consecutivi? Scarsina la bimbetta.
Ma il ricordo peggiore è: La
spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini!
Il 5 maggio di Manzoni a confronto era una passeggiata a piedi nudi nel
parco.
"Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti! Me ne andavo al
mattino a spigolare, quando ho visto una barca in mezzo al mare: era una barca
che andava a vapore"(puntini puntini)
Alla seconda strofa, stramazzavo e pensavo a come potevo cambiare la mia
sorte, sicuramente impietosa, il giorno dopo a scuola… La mia mente inanellava
una serie di scuse assurde, Carducci, mi costrinse a dire che mi era nata una
sorellina, in realtà era nata mia cugina, per cui non era proprio una bugia con
la B maiuscola, se poi io le volevo bene come fosse stata una sorella non mi si
poteva di certo biasimare o rimproverare.
La maestra Italia, prese fra le dita i due lembi rossi bavucchiati e
mentre li ricomponeva in fiocco, guardandomi negli occhi mi disse che avrebbe
chiamato casa per congratularsi, anche se aveva incontrato mia mamma e non le
sembrava aspettasse un bambino.
Fortunatamente un pomeriggio con Ungaretti mi ruppi un braccio, e andai
a scuola con il gesso. La maestra controllò minuziosamente il mio arto, ed ero
felice perché si ruppe il destro.
Era usanza all’ora della merenda donare un po' della propria, a chi si
faceva male, come nel mio caso, oppure a chi era triste, di solito si era
tristi quando volavano in cielo i nonni o i criceti.
Mangiavo beatamente, patatine fritte, che a casa mia erano severamente
vietate, soprattutto come merenda alle 10 del mattino, e la mia sana banana o
il sanissimo panino con la marmellata, venivano donati con slancio altruistico,
mentre mi facevo firmare il gesso dai miei compagni di classe con aria
soddisfatta di chi ha vinto.
Il problema del braccio però è
che servì , come scusa intendo,solo il giorno dopo l’incidente. (Cioè incidente
stavo scappando da un ragazzino che mi tirava con la fionda ricci di castagne
selvatiche, per riconquistarsi la capannina ma questa è un'altra storia)
Poi imparai a scrivere con la sinistra, arrivai alla triste conclusione
che per le poesie mi sarei dovuta
rompere la testa con una grave perdita di memoria.
La spigolatrice di Sapri, ormai senza più scuse, mi costrinse a mettermi
sul ballatoio delle scale con la finestra aperta ( a casa non potevo ,mia madre
mi avrebbe sicuramente scoperta in compenso mi scoprì la vicina che saliva con
la spesa ) a respirare a pieni polmoni aria gelida invernale, senza maglione in
maniche di camicia sperando in un febbrone da cavallo per il giorno dopo, in
posizione di benedizione papale e con un braccio ingessato ma non funzionò. La
studiai.
La mattina dopo, cominciai a ripeterla mentre facevo colazione, mi
spazzolavo i denti, mi mettevo il cappotto la sciarpa le scarpe, mentre
chiudevo a chiave la porta di casa, a voce alta nello scendere i 3 piani di
scale, così per rompere le balle ai vicini, lungo la strada e aspettando il
suono della campanella.
La ripetei per prima, per paura di scordarmi qualche cosa con il passare
del tempo, la maestra incredula avrà sicuramente pensato, quando inizia la
seconda strofa mi stramazza sul pavimento, e invece no, la recitai anche con un
certo pathos.
C'era un problema secondario da non sottovalutare, queste poesie
interminabili, una volta memorizzate, si dovevano ripetere ai nonni, ai parenti
tutti, agli amici che venivano a cena, alla vicina di casa e non so a chi
altro.
Ho scelto gli Haiku, perché sono formati da tre strofe! Mi avrebbero reso la vita molto più semplice.
Yosa Buson
Cade nel buio
di un vecchio pozzo
una camelia.
di un vecchio pozzo
una camelia.
Yosa Buson
Sera autunnale
c'è gioia
anche nella solitudine
c'è gioia
anche nella solitudine
Kobayashi Issa
Un filo di fumo
disegna adesso
il primo cielo dell'anno
il primo cielo dell'anno
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